domenica 26 luglio 2020

Mali 2000

Quando il Mali era un paese in pace...
Mia zia è una suora missionaria (nel momento in cui scrivo non c’è più) e in questo momento (cioè nel 2000) sta in Mali. Dopo averle fatto visita nel 1997 in Costa d’Avorio (quando non avevo ancora il blog e non c’erano le foto digitali), decido che è il momento di tornare in Africa. Lei si trova nella capitale Bamako ma io mi sono documentata e ho visto che quel paese offre delle meraviglie che non posso perdere. Quindi arrivata a Bamako con mia cugina Anna, mi metto alla ricerca di una guida con cui girare il paese, impresa abbastanza complicata perché non è difficile che capiti di essere lasciati derubati e tramortiti da qualche parte...
Alla fine trovo Camille di cui decido di fidarmi e con cui parto dopo qualche giorno, zaino in spalla, verso il nord e verso i famigerati paesi Dogon.

Per iniziare un po’ di storia, che non guasta mai quando bisogna capire un paese (testo tratto da www.mali.it)

La storia del Mali è talmente antica che il paese può vantare delle pitture rupestri risalenti al tempo in cui il Sahara era un paradiso di lussureggiante vegetazione. Il primo impero di cui si ha notizia nella regione fu quello del Ghana, distrutto nell'XI secolo dai Berberi musulmani provenienti dalla Mauritania e dal Marocco, che non gradirono molto il tiepido assenso incontrato nella zona dalla loro religione. Verso la metà del XIII secolo, tuttavia, Sundiata Keita, capo dell'etnia mandinka, fece strategicamente convertire il suo popolo all'Islam e ottenne il monopolio del commercio dell'oro e del sale. Grazie all'influenza di alcuni Mansa (signori) di ideali progressisti, Djenné e Timbuktu divennero le Shangri-la mercantili dell'Africa occidentale: vi sorsero numerose moschee e un paio di università, costruite nell'intento di creare un impero vasto e potente.
A est i Songhai avevano nel frattempo fondato una città nei pressi di Gao; questa etnia era potente e ben organizzata e, soprattutto, si era data molto da fare per creare un esercito di professionisti e una burocrazia efficiente, mentre l'impero del Mali era invece impegnato a costruire le sue università. Quando i due popoli infine si confrontarono, i mercanti e gli studenti dovettero soccombere ai soldati e ai burocrati e l'impero songhai si impadronì del Sahel. Questa vittoria fu però di breve durata e la dominazione durò un secolo soltanto, prima di un nuovo e brutale scontro con i Berberi marocchini. In quello stesso periodo le navi europee avevano iniziato a percorrere in lungo e in largo la costa dell'Africa occidentale, aggirando così le rotte commerciali del Sahara e riducendo sul lastrico il ricco Sahel. La città di Timbuktu venne infine abbandonata e acquisì la fama di località remota e inaccessibile.

Nel 1883 il Mali divenne una colonia francese e, nonostante la costruzione di qualche tratto di ferrovia e di vari sistemi d'irrigazione, il paese fu sempre considerato il parente povero delle altre colonie dell'Africa occidentale. Nel giugno 1960 ottenne finalmente l'indipendenza e si unì al Senegal in una federazione che avrà vita breve e travagliata: nell'agosto successivo, infatti, il Senegal si staccò e Modibo Keita divenne il primo presidente della repubblica del Mali.

Questa è la tipica architettura dei paesi del Mali, detta architettura sudanese. Tutti i paesi sono costruiti con il banco (che si legge con l’accento sulla o), un semplice impasto di terra e acqua. 




In Mali ci sono stata tutto il mese di settembre e il 22 settembre è la festa nazionale del Mali, il giorno in cui nel 1960 il paese ottiene la sua indipendenza dalla Francia e diventa una repubblica. Qui mi trovo nella città di Mopti, nel mezzo del paese, ultimo avamposto prima di entrare nella terra dei Dogon e anche uno dei luoghi dove si può ammirare il Niger.


Vista dei cortili interni dai tetti di Mopti.


Celebrazioni per le vie di Mopti. La gente si è tutta riversata per strada, a piedi, su carri o camion. Tiene in mano degli arbusti oppure i loro strumenti di lavoro. Credo che la processione sia suddivisa per professioni; ognuna ha il suo carro di rappresentanza.



Da una piroga sul Niger osservo questo grandissimo fiume che in questo giorno di festa è affollato e colorato. C’è anche una gara di piroghe!









La moschea di Djenne, uno degli esempi più belli di architettura in banco del paese. Ogni anno queste strutture richiedono manutenzione dopo le piogge. La stessa piazza con e senza mercato. Purtroppo, da non musulmana, la posso vedere solo da fuori.


Finalmente l’arrivo nei paesi Dogon, popolo situato sulla falesia di Bandiagara. 
I Villaggi Dogon hanno queste costruzioni tipiche solo di questo popolo, ma fatte comunque in banco; alcune sono abitazioni, alcuni granai, alcuni luoghi di riunione.


Riporto un valido testo (quindi non scritto da me) in cui è ben spiegata la storia dei Dogon.
(Tratto da emotionsmagazine.com, testo di Anna Maria Arnesano e Giulio Badini) 
 Nel cuore del Mali, a sud del grande delta interno formato dal fiume Niger, vive in un contesto ambientale assai affascinante una delle più interessanti tra le venti etnie che compongono questa nazione sahelo-sahariana. Secondo gli etnologi i Dogon costituirebbero una delle popolazioni più interessanti dell’Africa occidentale. Non a caso nel 1989 l’Unesco ha inserito il territorio Dogon nella lista del Patrimonio dell’Umanità.

Questa etnia, circa 250 mila individui, abita la vasta e arida regione di Bandiagara, un altopiano di roccia di arenaria che precipita improvvisamente sulla pianura sottostante con una scenografica falesia verticale alta diverse centinaia di metri e lunga oltre 150 chilometri. Ignoriamo l’origine di questo popolo e sappiamo soltanto che tra il XIII e XVI secolo colonizzarono questa regione inospitale, forse per sfuggire all’espansionismo islamico degli imperi medievali sorti a quell’epoca sulle sponde del Niger. Al loro arrivo la zona era abitata dai Tellem, popolazione locale descritta come di bassa statura e pelle rossiccia (forse pigmei o boscimani), che abitavano in villaggi di roccia e di fango letteralmente abbarbicati sulla falesia, e seppellivano i loro morti nelle grotte aperte a notevole altezza in verticale assoluta. I Dogon, che continueranno ad abitare i villaggi sulla falesia, collegati tra di loro da sentieri aerei da vertigine, e ad usare le caverne naturali come necropoli (issando però i defunti con funi), sostengono che i Tellem sapessero volare oppure che usassero poteri magici per raggiungere simili altezze. Forse, ma è soltanto un’ipotesi, parecchi secoli fa il clima più umido poteva favorire la crescita sulla scarpata di piante rampicanti, tali da poter essere usate come scale naturali per individui di peso ridotto. Imparando dai loro predecessori a colonizzare le rupi verticali e a celarsi nelle grotte, i Dogon riuscirono a sottrarsi per secoli alle incursioni degli schiavisti, agli attacchi di altri popoli aggressivi e poi ai colonialisti francesi. Ma, soprattutto, riuscirono a conservare la loro religione animista, che fa perno su una complessa cosmogonia tramandata solo oralmente e attraverso gli iniziati, e le antiche tradizioni, vivendo secondo un complesso sistema sociale ben organizzato, con un’economia di sussistenza basata su agricoltura, allevamento, caccia, artigianato e piccoli commerci di scambio con le popolazioni vicine.

Grazie al loro isolamento, fino al 1930 dei Dogon non si sapeva quasi nulla. Dal 1931 al 1952 l’etnologo francese Marcel Griaule e l’antropologa Germaine Dieterlen vissero per lunghi periodi nei diversi villaggi per studiare le loro abitudini e gli stili di vita, scoprendovi una visione religiosa e metafisica complessa e assolutamente inimmaginabile per un popolo che viveva ancora nella protostoria. Ma furono soprattutto le rivelazioni di un vecchio hogon, un capo religioso e spirituale cieco e ottantenne, a svelare le loro incredibili conoscenze scientifiche, in particolare in campo astronomico. La divulgazione delle conoscenze di questo popolo contenute nel libro Dio d’acqua, pubblicato da Griaule nel 1948, determinarono un vero shock per l’Occidente e pongono ancora oggi inquietanti interrogativi tutt’altro che risolti.”

Questa è la falesia di Bandiagara, in fondo si vede il confine con il Burkina Faso (ovviamente potete solo immaginarlo, non c’è alcuna dogana, almeno credo...). Sopra e attorno ad essa ho camminato per una settimana, girando di villaggio in villaggio ma evitando accuratamente la capitale Sanha che sapevo essere la meta preferita dai turisti che vogliono vedere i paesi Dogon, comprare due chincaglierie e tornare a casa.


La mia guida, Camille, con un capo villaggio.


Tipici granai dei villaggi Dogon, sopraelevati x evitare i topi (credo). Qui sopra invece la vista sulla pianura sottostante, risalendo sulla falesia.


La savana è  per lo più coltivata a miglio. Ho trovato un pozzo costruito dai giapponesi. Ma in mezzo alla falesia, nascosta dalla vegetazione, ad un certo punto c’è una cascata incredibile che forma un laghetto. Dopo aver camminato con 50 gradi o giù di lì, quella è veramente un’oasi.
 I Dogon sono un popolo pacifico e laborioso, che in un territorio arido sono riusciti a creare delle vere oasi di verde con coltivazioni a terrazze e piccole dighe in pietra per la raccolta dell’acqua. Vivono essenzialmente di agricoltura, producendo miglio, sorgo, tabacco, spezie e le migliori cipolle del Mali, e la farina di miglio, dalla quale ricavano anche una diffusa birra locale, è alla base dell’alimentazione.”


Il luogo dove gli anziani Del villaggio si riuniscono per prendere decisioni.
 Oltre alle abitazioni private in fango e in pietra ed ai caratteristici granai cubici con il tetto conico di paglia, ogni villaggio presenta strutture comuni caratteristiche: il togu-na, una bassa costruzione aperta retta da 8 pali istoriati e sormontata da uno spesso strato di fascine di miglio, che sorge nel punto più alto e serve ad ospitare le riunioni del consiglio, la casa-tempio dell’hogon, gli altari a forma fallica per i sacrifici e numerosi tempietti per i feticci, gli omolo, oltre ad una casa fuori dal villaggio dove vanno a risiedere temporaneamente le donne mestruate.”



La casa del “medico” del villaggio.
 Animisti convinti, i Dogon vedono il mondo come una cosa unica dove convivono in armonia il mondo delle cose, degli animali e degli uomini, dove l’uomo non è il padrone assoluto ma soltanto un elemento che come gli altri partecipa al mondo. Essi hanno costruito una complessa cosmogonia, dove il tutto risulta contenuto in germe in ogni sua parte, con simbolismi e rituali presenti in ogni gesto della loro vita quotidiana. Semplificando al massimo, essi credono nella sopravvivenza dell’anima e in un unico dio, Amma, creatore dell’universo, il quale si accoppiò con la terra generando i Nommo, due gemelli ermafroditi e anfibi, metà uomo e metà pesce, i quali a loro volta generarono otto esseri umani, quattro maschi e quattro femmine, gli antenati dei Dogon, che si sparsero per la terra insegnando le diverse arti.”


Tipico artigianato dei Dogon (molto ricercato dagli antiquari occidentali): una scala (io la usavo quando la sera salivo sui tetti delle case a dormire perché faceva meno caldo che dentro le case) e una porta.
Il ricordo che ho di quelle notti sono le zanzare di notte e all’alba il rumore delle mosche che arrivavano a sostituire le zanzare...
 La loro vita è costellata di feste e cerimonie, riservate esclusivamente agli uomini, di cui la più importante è il Segui, che si celebra ogni 60 anni per festeggiare la fine e l’inizio di un ciclo di vita, quando la stella Sirio compare in un punto preciso del cielo.”


Dice Marco Aime, antropologo e grande conoscitore dei Dogon:

l’attività scultorea per la quale questo popolo è diventato famoso, è un’arte totalmente intrisa di religiosità. Le statue lignee rappresentano spesso la dea madre, evocano la fertilità e la sacralità della natura. Le opere più antiche sono state portate via dai collezionisti europei, ma gli artigiani locali le hanno riprodotte e inserite anche nelle abitazioni.


AGGIORNAMENTO 2020
(Tratto dalla rivista Africa, testo di Marco Aime)
Il leggendario popolo del Mali che abita la falesia di Bandiagara, un tempo oasi di pace frequentata dai turisti, è sconvolto dalle violenze di matrice etnica e jihadista che stanno insanguinando la regione.

I turisti però oggi non arrivano più. Anche sotto la falaise è arrivata l’ombra strisciante del jihadismo, ed è arrivata con il volto dei Peul, i tradizionali allevatori della savana. Tra di loro e le popolazioni sedentarie locali non è mai corso buon sangue, ma in qualche modo si era stabilita una certa forma di convivenza: dopo il raccolto i bovini potevano pascolare sui campi, fornendo letame, assai ambito dai contadini, che non possiedono altri tipi di fertilizzante. I Peul ricevevano in cambio miglio, altri prodotti alimentari e talvolta anche piccole somme in denaro. Di tanto in tanto nasceva qualche lite, perché i Peul invadevano i campi prima della fine del raccolto. Gli scontri tra i giovani dei villaggi, armati di bastoni e coltelli, e i pastori erano talvolta degenerati ed erano state sequestrate centinaia di vacche. Il tutto si limitava a scontri per il bestiame e i campi. Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato: l’ondata fondamentalista, iniziata nel 2011 con l’occupazione del Mali settentrionale, dopo una prima fase “militare” si è trasformata in una penetrazione silenziosa di elementi islamisti nei villaggi del Mali, tra cui quelli Dogon.

Questo ha provocato numerosi scontri, anche a fuoco, con molti morti, al punto che i Dogon hanno formato una sorta di milizia etnica a metà tra un’associazione di cacciatori e un corpo paramilitare, chiamato Dan Na Ambassagou, che nel marzo 2019 con un assalto armato ha raso al suolo il villaggio di Ogossagou, tra Mopti e la frontiera con il Burkina Faso, lasciando a terra oltre 150 vittime, tutti civili di etnia peul trucidati senza pietà a colpi di machete e armi da fuoco mentre veniva dato alle fiamme l’intero villaggio. L’eccidio è stato motivato dagli assalti jihadisti condotti dai miliziani del Macina – guidati dal predicatore Peul Amadou Koufa e inquadrati nella principale coalizione jihadista del Sahel, il “Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani”, di fede qaedista – e dalle sempre maggiori pressioni dell’ondata islamista. Negli ultimi mesi sono filtrate dalla regione frequenti notizie di scontri a fuoco, villaggi incendiati, raid punitivi e stragi di civili, in una spirale di violenza interetnica alimentata dai predicatori dell’odio. É notizia del 4 luglio scorso il massacro di almeno 40 Dogon registrato nella regione di Mopti, la stessa della falesia, episodio che ha ulteriormente aggravato un bilancio spaventoso: in Mali, nel 2020, sono stati uccisi oltre 600 civili. Il tutto, sotto lo sguardo indifferente dell’esercito maliano, rimasto inerte di fronte a questi violenti episodi. I Peul vengono oggi considerati dai Dogon, nel migliore dei casi, dei collaborazionisti. Il mosaico etnico del Mali è andato drammaticamente in frantumi per gli effetti collaterali della disgregazione della Libia e per la diffusione tossica del radicalismo religioso di stampo wahhabita, che un tempo era marginale in questi luoghi. Difficile dire quale sarà il futuro di questo ex pacifico popolo di coltivatori. Nere nubi si affacciano all’orizzonte.

Parole chiave: pinasse, taxi-brousse, Baobab, toubab, banco, Ali Farka Touré 

BIBLIOGRAFIA
- Vittorio Franchini, “Mali: viaggio tra i Dogon: il popolo delle stelle”, ed. Polaris 
- Marco Aime, “Diario dogon”, ed. Bollati Boringhieri 
- “Dio d’acqua”, Marcel Griaule, Bollati Boringhieri 
- Sebastian Schutyser “Banco, moschee di terra cruda del delta interno del Niger”, ed. 5 continents 

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